“I viaggi sono i viaggiatori”. A Lisbona da Fernando Pessoa
E’ quasi ottobre, ma il sole abbaglia come in piena estate.
L’eléctrico n. 28 parte sferragliando da Martim Muniz per compiere tutto il suo percorso su scia d’argento verso l’altro capo, quello del Cemeterio dos Prazeres, ma io non devo arrivare tanto lontano.
Scendo a rua do Comércio e svolto l’angolo di rua Augusta, diretta sotto il grande arco. Giro a sinistra e percorro i portici in direzione del Café Restaurante Martinho da Arcada.
Mentre faccio gli ultimi passi sbircio l’orologio: le quattro e trenta del pomeriggio. Dovrebbe essere già seduto al suo tavolo a sorseggiare un buon caffè e un pastel de nata. E se non volesse concedermi quest’intervista? Se lo infastidissi anche solo con la mia presenza? Sono arrivata fino a Lisbona per incontrarlo e ci proverò, fosse l’ultima cosa che faccio in vita mia.
Il sole mi acceca e i miei occhi miopi fanno fatica ad adattarsi alla luce fioca dell’interno del locale. Lui è lì, seduto da solo, che sorseggia un fumante caffè e legge un giornale. E’ il momento per agire, o adesso o mai più. Entro, lui muove impercettibilmente la testa, ma i suoi occhi pungenti sembrano trafiggermi da dietro le lenti tonde.
«Hello, Mr Pessoa. My name is…»
«E’ forse irlandese, gentile signora dai capelli rossi?» mi risponde in un inglese perfetto. Mi vergogno di parlare in inglese davanti a colui che da bambino vinse il Queen Victoria Memorial Prize per il saggio stilistico, ma tant’è. Proseguo.
«Veramente no, signor Pessoa, sono una scrittrice italiana di detective story. So che lei ha tradotto in portoghese alcune tra le opere più significative di Edgar Allan Poe vorrei scambiare due parole con lei sul Maestro americano»
«Quoth the raven, Nevermore! Non ho altro da aggiungere.»
Arrossisco, ma sgancio la bomba comunque.
«In realtà, gli scritti di Poe erano solo una scusa per conoscerla di persona, signor Pessoa. Ops, scusi l’ingenuo gioco di parole…»
«Come potrebbe il mio nome non essere una sciarada, quando tutta la mia vita lo è?»
«In effetti, signore, anche il nome di battesimo è emblematico: Fernando (il vero nome del Santo) e Antonio, per essere nato lo stesso giorno della sua morte»
«Mia madre vantava discendenza diretta dal Santo e ha voluto consacrarmi a lui. Un destino davvero curioso, visto che mi ritengo un Cristiano gnostico»
«Anche il cognome Pessoa è altamente simbolico però…»
«Simbolico? Neutro, direi, perché indica tutto e niente, me o chiunque altro. Pessoa/Persona. Io, Fernando Pessoa, sono una persona, ma anche un’altra, e un’altra e un’altra, contemporaneamente e separatamente»
«Ho capito dove vuole arrivare! I suoi eteronimi sono le altre sfaccettature della sua persona, giusto?»
«Eteronimi, dice lei… Uhm, una definizione sagace…»
«Non è farina del mio sacco, Maestro, per carità! Questa è la definizione che i critici danno ai vari filoni della sua produzione letteraria»
«Che c’entrano i miei scritti con il fatto che oggi c’è una tale mancanza di gente coesistibile che un uomo di sensibilità è costretto ad inventare i suoi amici, o quanto meno i suoi compagni di spirito?»
Rimango senza parole, completamente abbacinata di fronte al luccichìo di una mente così brillante.
Lui, visibilmente spazientito dalla mia dabbenaggine, scosta la sedia e sta per alzarsi: «Mi perdoni, signora, ma ho il dovere di andare a chiudermi in casa nel mio spirito e lavorare»
Sono sgomenta: se ne sta andando davvero! Ritrovo voce e idea geniale: «Rua Coelho da Rocha è lontana. Potrei accompagnarla e potremmo continuare a parlare in tram»
Mi fissa sbigottito: «Perché?»
«Perché abbiamo una cosa in comune»
«Sarebbe?»
«Siamo multipli di noi stessi, nella nostra essenza più profonda»
Mi gela con lo sguardo e non risponde. E’ corrucciato e non riesco a immaginare cosa gli passi per la mente. Avviandosi verso la porta del locale sembra dimenticarsi di me. Saluta il proprietario ed esce. Poi si volta di scatto e mi sorride: «A quest’ora l’eléctrico sarà molto affollato: sarà difficile trovare posti a sedere per la moltitudine che è in noi»
Il mio cuore e il mio sorriso si aprono all’unisono: «Resteremo tutti in piedi, non c’è problema!» esclamo.
E così stipati fianco a fianco nella piccola vettura, cominciamo la salita verso il Chado.
«Riconoscerlo è già una salvezza»
«Cosa?»
«Di avere dentro si sé più parti vive contemporaneamente. Lei ha dato un nome alle sue parti?»
Non ho bisogno di rifletterci su: «L’unica a cui ho dato un nome è la Rossachescrivegialli»
Con la mano libera dalla maniglia si aggiusta gli occhiali e poi mi chiede: «Ha una data di nascita questa sua “parte”?»
«La mia, naturalmente!» rispondo sicura.
«Non può essere un eteronimo, allora, perché non è altro da lei. E’ un mero frutto di una sua proiezione fantastica, ciò che probabilmente vorrebbe essere e che invece non è. Si è rifugiata nella fantasia, ma non vive più vite contemporaneamente»
Tra il frastornato e il mortificato eccepisco: «Ma non è possibile vivere più vite contemporaneamente!»
«Mia gentile amica, il solo fatto che io ci sia riuscito testimonia che è davvero possibile, non trova?»
Finalmente il tram ha uno scossone, che ci aiuta a deviare l’attenzione da questo insidioso terreno semantico.
«Quella non è la casa dove è nato?» gli chiedo, indicando il palazzo di fronte al Teatro Sao Carlos.
Un sospiro appena percettibile mi comunica un moto mal celato di tristezza.
Una strisciante saudade si intrufola tra di noi, ma non so ben decifrare se la nostalgia si riferisce ai tempi giovanili trascorsi in Sud Africa o ad un ideale tempo felice, trascorso in quella casa prima della morte del padre.
«La mia lingua è la mia Patria»
Catturo definitivamente il suo interesse con una replica davvero efficace: «Non l’ho chiesto a Bernardo Soares, l’ho chiesto a Fernando Pessoa»
Accenna un sorriso. «E Fernando le risponde che è davvero la casa dove è venuto alla luce, anche se poi la vita ha necessitato che crescesse altrove».
La conversazione langue, ma ho un asso nella manica.
«Sa, Maestro, che abbiamo un’altra passione in comune?»
Mi scocca uno sguardo di sufficienza.
«Fernando e Monica o Bernardo e Larossachescrivegialli?»
«Tutti e quattro, direi. E’ l’amore per l’Astrologia»
Ride divertito: «Che ne può sapere di Astrologia?»
«La studio da anni e ho approfondito l’analisi del suo tema natale, per preparare questa intervista»
«Si prende delle libertà, dunque, perché è convinta di conoscermi già bene… supponente, direi…»
Arrossisco.
«E’ il contrario invece: proprio perché non riuscirei mai a capirla veramente, avrei bisogno di confrontarmi con lei, di parlarle»
«Qualsiasi tema natale è un’alchimia difficile da ricreare, non vedo come si possa riuscire a decifrarne una in tutte le sfaccettature. Non ho alcuna intenzione di disquisire della mia anima con chi non conosco affatto. Detto ciò, dato che ama molto Edgar Allan Poe, alla sua sfrontata curiosità risponderò che “there are some secrets which do not permit themselves to be told“»
Mi devo arrendere, non c’è alternativa.
Il tram sferragliando riparte e, dopo pochi metri, gira a sinistra fronteggiando il caffè A Brasileira.
Lo sguardo del Maestro è rapito dalla piazza.
«Amo molto sedermi ai tavoli esterni a bere il caffè, specialmente in tarda primavera, quando il vento sparge per la città il profumo della jacaranda. Il Chiado, poi, è così vivo a ogni ora del giorno che è l’esatta metafora della vita pulsante dell’intera città»
Mi sto ancora rammaricando in cuor mio di essere venuta a Lisbona in autunno quando lui, cogliendo quell’ombra nei miei occhi, propone: «Perché non scendere e fermarci per un caffé? »
«Non chiedo di meglio! »
Ed eccoci qui, il Maestro Pessoa e Monica, divisi dai secoli ma uniti dall’amore per la dialettica e la letteratura!
Afinal, a melhor maneira de viajar è sentir.
Álvaro de Campos/Fernando Pessoa